La rivascolarizzazione miocardica (o by pass aorto-coronarico) è il più diffuso tra gli interventi di cardiochirurgia e rappresenta la terapia chirurgica per la cardiopatia ischemica. La cardiopatia ischemica infatti rappresenta la prima causa di morte nelle popolazioni industrializzate e si può presentare sotto varie forme: infarto del miocardio o angina pectoris.
La rivascolarizzazione miocardica è un intervento che può essere eseguito in circolazione extracorporea (CEC) con cuore fermo o (grazie alle innovazioni tecnologiche sviluppate negli ultimi anni) hanno permesso di evitare, a cuore battente (chirurgia “off pump”). Le innovazioni in chirurgia cardiaca hanno aperto anche nuove strade per quanto concerne la progressiva riduzione dell’invasività dell’approccio chirurgico (minitoracotomia).
L’intervento consiste nel prelevare un pezzo di una arteria o una vena e impiantarla sulla coronaria ostruita formando così un bypass che trasporta sangue al cuore. Si possono impiantare uno, due, tre o più bypass, secondo quante arterie coronarie (ed i loro rami principali) sono ostruite. Circa un decimo dei pazienti con malattia coronarica necessita di un bypass. Generalmente, la degenza ospedaliera è di circa 4-5 giorni a cui segue un ciclo di riabilitazione. L’intervento di bypass è molto frequente in cardiochirurgia e, negli ultimi anni, viene effettuato con ottimi risultati anche nei soggetti con oltre 80 anni. Nonostante i rischi connessi con la chirurgia, i benefici salvavita dell’intervento di bypass sono enormi.
Il condotto venoso impiegato per eccellenza è la vena grande safena, prelevato alla gamba o/e alla coscia del paziente. La tecnica di prelievo ne prevede l’isolamento e la legatura dei rami collaterali, avendo cura di traumatizzare il meno possibile le delicate pareti. In alternativa alla vena grande safena è possibile utilizzare la vena piccola safena, prelevata nella regione posteriore della gamba con la stessa tecnica impiegata per la vena grande safena. Raramente sono state impiegate le vene cubitali del braccio. L’arteria mammaria interna rappresenta il condotto arterioso attualmente più in uso; la tecnica di preparazione prevede il suo isolamento insieme ad un peduncolo vascolare dalla parete toracica interna destra e/o sinistra in prossimità della faccia inferiore dello sterno dove normalmente decorre; i rami collaterali vengono chiusi con apposite “clip” o cauterizzati. L’estremità distale è poi sezionata (per valutarne il flusso) e preparata per l’anastomosi distale sulla coronaria (generalmente la sinistra sull’arteria discendente anteriore, la destra per la coronaria destra). Le arterie mammarie possono essere sezionate anche prossimamente e impiegate come innesti liberi (“free grafts”). Per le capacità di adattamento attivo al flusso e per la fisiologica somiglianza alle coronarie, le a. mammarie interne hanno garantito risultati a distanza ottimi, con pervietà a 10 anni del 90%. In alternativa alle arterie mammarie interne sono impiegati come condotti arteriosi le arterie gastroepiploica, epigastrica e radiale. La tecnica di preparazione è più complessa e le rende comunque non di prima scelta rispetto all’a. mammaria interna.
É quella tecnica che consente di intervenire con incisioni molto ridotte rispetto a quella “tradizionale” a torace aperto, per operare sulla valvola mitralica e sulla valvola tricuspide.
In particolare viene eseguito un taglio di appena 4 cm, all’altezza del terzo spazio intercostale: grazie a una microcamera sterile inserita all’interno del torace, il chirurgo opera osservando il campo tramite un monitor (chirurgia videoscopica).
Le tecniche mini invasive sono considerate oggi più efficaci per determinati interventi al cuore. Hanno tanti e importanti vantaggi: un minor trauma, un rapido recupero post-operatorio per il paziente, ma anche meno costi.
Al posto della tradizionale sternotomia, un'apertura cioè del torace molto invasiva e traumatica, i cardiochirurghi applicano tagli piccoli di 4-5 centimetri tra una costola e l'altra e quindi sottraendo quella parte di intervento ortopedico a un intervento cardiochirurgico già importante. Il trauma è totalmente diverso, il dolore che subisce il paziente è limitato e molte volte anche il rischio operatorio, senza dimenticare il fattore estetico decisamente meno impattante.
La riparazione della valvola mitrale mediante approccio mini invasivo era limitato a quei casi non complessi, mentre generalmente si operava per via convenzionale, cioè a torace aperto.
La pratica della riparazione al posto della sostituzione è raccomandata dalle attuali linee guida ogniqualvolta sia tecnicamente possibile: la riparazione consente di preservare la valvola del paziente ripristinandone l’ottimale funzionamento ed evitando tutti i rischi e le limitazioni alla qualità di vita associati all’impianto di una protesi valvolare.